80. Kobe (Giappone)

Sveglia e colazione con capatina a poppa per testare la temperatura esterna: per fortuna ho indossato il giubbino!

Aria freschetta e umidità.

Ma l’atmosfera si scalda quando, dal lato verso la banchina, arriva della musica: a Kobe ci accoglie una banda e tante persone che ci salutano, accogliendoci con tutta l’ospitalità che contraddistingue il Giappone.

E allora ありがとう (Arigatō), Grazie!

Aggiustato l’abbigliamento alternativo nello zaino, siamo pronti e alle 11:00 saliamo al Teatro Duse, nostro punto di riunione.

Muniti di fotocopia del passaporto, Costa Card e Customs Declaration (il foglio giallo della dichiarazione per la dogana), alle 12:30 passiamo i controlli, rigidi ma cordiali, delle autorità.

Tutti i controllori indossano guanti bianchi e ci porgono a due mani, in segno di rispetto, tutti i documenti una volta controllati e vidimati.

Mi piace del Giappone il rispetto delle regole, che sono semplici e rendono efficiente il loro lavoro: rispettare la coda ed essere ospitali (sarebbe una bella scuola per tanti, troppi, italiani).

Fuori dal terminal ci attende il pullman 18.

La nostra guida si chiama Antonio, è italiano (milanese di origini meridionali), sposato con una giapponese, hanno due bambine e vivono in Giappone da vent’anni.

Antonio è stato insegnante d’italiano per dodici anni e spesso, nei suoi racconti sul Giappone, ci ripropone aneddoti di quel periodo.

Le differenze con la cultura occidentale in generale, e italiana in particolare, non sono moltissime, ma decisamente sostanziali.

La difficoltà maggiore che ha riscontrato riguarda il cibo, che qui in Giappone è meno saporito rispetto all’Italia.

Il ritardo con cui siamo partiti, unito al traffico, ha obbligato l’Agenzia a cambiare il programma, come già preventivato anche nella descrizione dell’escursione (evidentemente sanno come funzionano queste cose).

Dal finestrino del pullman, vediamo sfilare, senza soluzione di continuità, gli edifici di Kobe, e trasformarsi in quelli di Osaka per poi diventare quelli di Kyoto.

Siamo nell’isola di Honshu.

La nostra prima tappa è il “Louran” un ristorante posto sulle pendici di Kyoto, all’interno del Shozan Resort Kyoto, immerso in un’atmosfera che mi riporta indietro nel tempo: nebbiolina, piante di bambù, edifici nipponici… è come se il tempo rallentasse e dovessero comparire Samurai e donne in Kimono da un momento all’altro.

Scendiamo al piano inferiore dove, in una sala a noi riservata, sono stati allestiti i tavoli per il pranzo, con le pietanze già porzionate e impiattate in modo caratteristico.

Sarà che amo il sushi (sì, quello che mangiamo noi non è quello giapponese, lo so…), sarà che mi affascina il Giappone, ma ho amato fino all’ultimo chicco di riso del pasto, che ho trovato gustoso e nutriente.

Si sa, i gusti sono gusti, e non tutti hanno apprezzato il cibo…

Molti più consensi hanno raccolto le toilet con i caratteristici woshuretti che hanno fatto impazzire i visitatori, catturati da tutti quei pulsantini multifunzione!

Dopo il pranzo ci siamo recati al “Padiglione d’Oro”, il Kinkakuji, una delle attrazioni più note di Kyoto, originariamente costruito nel 1397 come residenza dello Shogun,

Circondata da un giardino delizioso e da un laghetto che ospita delle enormi carpe rosse e dorate, il Tempio d’oro spicca nel mezzo, con la sua pianta quadrata e i suoi tre piani, dei quali gli ultimi due sono completamente rivestiti in foglia d’oro.

Il fiume di visitatori presenti oggi, ci dicono essere poca cosa rispetto ai volumi del fine settimana o delle giornate festive.

Poco più avanti, sulle pareti esterne di una delle costruzioni minori del complesso, sono appese delle immagini, una delle quali raffigura il tempio immerso in un paesaggio invernale coperto da una candida coltre di neve: semplicemente meraviglioso.

Lungo il percorso, fatto di sentieri e di scalini in pietra, non di rado si incontrano coppie di ragazze nei tradizionali kimono, forse alcune di loro sono Geishe.

Le Geishe frequentano delle apposite scuole, dove ricevono un’istruzione ad alto livello su moltissime discipline: devono, infatti, essere in grado di intrattenere, conversando, i loro ospiti.

Il tempo a nostra disposizione è ridotto e dobbiamo allungare il passo.

Ci dirigiamo, dunque, al Fushimi Inari-Taisha, un importante tempio shintoista, a sud di Kyoto, dedicato al kami Inari, che si occupa del successo nel lavoro e negli affari, famoso per i torii (le porte rosse) che vi si trovano, buona parte dei quali omaggiati dalle Aziende giapponesi.

Dal 1871 al 1946, il santuario di Inari è stato ufficialmente designato uno dei Kanpei-taisha, questo significa che è riconosciuto come appartenente al primo rango dei santuari.

Ai piedi del primo torii, detto rōmon (letteralmente “porta torre”), come spesso accade nei santuari di Inari, a proteggere l’accesso all’area sacra dalle forze maligne, ci sono delle statue raffiguranti delle volpi (kitsune), considerate messaggeri degli dèi, nella cui bocca è posta la chiave dei depositi di riso.

Le prime strutture del Fushimi Inari-Taisha furono costruite nel 711 sulla collina Inariyama, a sud-ovest di Kyoto.

Nell’816, su richiesta del monaco Kūkai, il santuario fu spostato nell’odierna collocazione.

La struttura principale del santuario è stata edificata nel 1499.

Accedendo al complesso, varcato il torii rōmon, troviamo il santuario principle, go-honden, dietro il quale, in mezzo alla montagna, si erge il santuario interno, okumiya, raggiungibile con un sentiero fiancheggiato da migliaia di torii.

Sulla cima della montagna ci sono centinaia di cumuli, tsuka, destinati al culto privato.

Nel periodo Heian, tra l‘VIII e il XII secolo, il tempio fu uno dei sedici santuari di in cui i heihaku (i messaggeri) portavano i resoconti scritti ai kami guardiani del Giappone, secondo il decreto dell’imperatore Murakami.

I kami sono talvolta indicati come dèi, ma tradurlo univocamente in questo modo diventa fuorviante.

Spesso il termine si riferisce alle forze naturali, agli spiriti che animano gli oggetti, gli alberi.

Attribuire il termine kami significa insignire l’oggetto di un’onorificenza, riconoscendone la presenza di spirito nobile e sacro, implicando un senso di profondo rispetto e adorazione.

Conclusa la nostra visita, partiamo alla volta della tappa successiva: l’Otowasan Kiyomizu-dera, il “Tempio dell’Acqua pura”.

Il nome Kiyomizu-dera è dovuto ad una cascata presente nell’area del complesso; kiyomizu significa infatti acqua pulita.

Questo Kiyomizu-dera è uno dei monumenti antichi di Kyoto ed è considerato patrimonio UNESCO, e ha concorso come finalista per essere uno delle nuove Sette Meraviglie del Mondo.

Anch’esso fondato nel periodo Heian, la sua costruzione è datata 798 ma l’attuale edificio risale al 1633 (periodo della restaurazione di Tokugawa Iemitsu).

Non esiste un solo chiodo in tutta la struttura dell’edificio che domina una vista unica sulla città di Kyoto dalla sua terrazza, alta tredici metri.

Qui, oltre alla vista pazzesca sulla città, gli occhi possono posarsi sulle decorazioni lignee, sulle statue e persino sui ciliegi in fiore, un delicato regalo di Madre Natura.

Riprendiamo il pullman per dirigerci verso la stazione di Kyoto dalla quale partiremo per Kobe con il Shinkansen.

Durante il tragitto verso la stazione ripenso alle vie percorse a piedi per arrivare ai santuari visitati oggi, alle botteghe, ai negozi di souvenir, a quelli di noleggio dei kimono, e alla moltitudine di gente che li percorreva.

Purtroppo non abbiamo avuto il tempo di fermarci per acquistare neppure un piccolo magnete per noi, ma ci portiamo a casa qualcosa di ben più prezioso: i ricordi di questi posti meravigliosi, ricchi di storia, arte e cultura.

Arriviamo alla stazione.

Avremmo dovuto prendere il treno delle 19:02 ma siamo in ritardo, prenderemo quello delle 20:02, salendo sulle carrozze dalla 1 alla 3 per le quali non è necessario avere un posto riservato.

La maggior parte delle persone sedute sono ragazzi molto giovani, i più vestiti con giacca e cravatta, facilmente individuabili come i famosi Salaryman, dall’aria stanca, gli occhi arrossati che non smettono però di scorrere sui cellulari, le cui videate sono molto piene di testo e poco di immagini.

In Giappone, dormire durante l’orario di lavoro o a scuola è considerato accettabile, poiché i ritmi sono incalzanti e la pressione sociale molto alta: tutto viene programmato sin da piccoli, le scuole da frequentare, il lavoro da fare, ecc.

Mancare uno degli step, fallire nei confronti della famiglia e della società, può essere un peso insopportabile, tanto da preferire il suicidio.

Ad una velocità elevata, raggiungiamo in soli ventisei minuti Kobe.

Da qui un pullman ci accompagna alla nave.

Salutiamo Antonio e il nostro autista e ci dirigiamo direttamente al ristorante, sperando che sia ancora possibile cenare, visto che sono già le 21:10.

Fulvia e Carlo sono già seduti al tavolo e hanno già iniziato al cena; purtroppo, senza internet in escursione, non abbiamo avuto la possibilità di comunicare loro il nostro ritardo.

Gaylord accoglie prontamente le nostre ordinazioni e alle 22:00 abbiamo terminato di cenare.

Decisamente stanchi ma altrettanto entusiasti, filiamo dritti in cabina: molliamo gli zaini a cui penseremo domani, ora abbiamo solo bisogno di riposare (anche perché l’allenamento di ieri si fa sentire!).

Buona notte a tutti.

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